lunedì 23 febbraio 2015

Il modello bio-psico-sociale: quando la realtà aiuta a capire che la biologia ha bisogno della biografia per spiegare un problema di salute.

Dopo due appuntamenti dedicati, il primo, a comprendere il modificarsi nel tempo del significato di parole come salute e malattia e, il secondo, quale sia stato il percorso che ha portato la nostra società a evolvere un proprio sistema medico, il terzo evento della rassegna “Curare e Narrare, Medical Humanities e Narrazione in Sanità” cerca di entrare nel vivo dei percorsi d’assistenza per cercare di capire le dinamiche che si sviluppano al loro interno.

Come accaduto all’apertura di ogni conferenza, alcuni minuti sono dedicati alla lettura di un racconto breve o di una poesia al fine di entrare in sintonia con l’argomento che sarà poi trattato dai relatori e, a questo giro, la scelta della “parabola dei seiciechi e dell’elefante” non poteva essere più appropriata.




Nel momento in cui si osserva come la capacità di ascoltare e considerare l’opinione di tutti sia messa in atto in ambito sanitario, emerge una tendenza a comportarsi come i protagonisti del racconto. Nei contesti di cura, realtà già di per sé complesse, accade spesso che la tendenza a delegare e suddividere eccessivamente i compiti generi malintesi, renda difficile la loro risoluzione con derive pericolose che spesso raggiungono la ribalta mediatica prima dei comportamenti virtuosi e penalizzi, di fatto, il servizio offerto. 

Analizzare simili aspetti legati all’esercizio dell’arte medica, avere sempre ben presente la delicatezza di alcune questioni bioetiche che vedono chiamati in causa i clinici e sentirsi, come parte integrante di un sistema sanitario, responsabile delle ricadute che la sua eccessiva sovra-strutturazione ha sulla salute collettiva, sono state e sono tuttora l’anima del lavoro quotidiano svolto dal relatore della conferenza.

La perfetta rappresentazione di quanto sia articolata la situazione e di come gli strumenti per affrontarla non siano da cercare molto lontano da noi, l’abbiamo già nel titolo scelto da Alfredo Zuppiroli per il suo intervento: “Le trame della cura. Persona e Società tra Biologia e Biografia”.

In esso sono presenti le due facce della medaglia: la prima, che è anche il titolo del libro scritto dallo speaker nel 2014, è la sua volontà di restituire attraverso le parole di chi riceve assistenza le prove tangibili delle multiformi dinamiche d’assistenza cui prende parte. Nella seconda, invece, è rappresentata la necessità di creare una forte sintonia con il paziente e di capire il contesto culturale e ambientale in cui si muove prima di decidere come affrontare ciò di cui è affetto dal punto di vista clinico.

Nel suo racconto Zuppiroli narra la sua esperienza di medico per cercare di spiegare quanto sia fondamentale per chi fa questo mestiere affidarsi all’istinto per capire le persone che si hanno davanti. Comprendere che gli ammalati sono un insieme fatto di coscienze e anime prima ancora che di corpi danneggiati, richiede un’estrema attenzione, ma è una strategia utile per creare un percorso per l’assistenza in grado di integrare invece di creare distanza.

La sua espressione che riporto per intero: “l’importanza di un processo di cura è capire che tipo di persona c’è dietro la malattia piuttosto che capire quale malattia abbia la persona in questione”, conferma quanto appena detto e inizia a tratteggiare una visione della medicina in cui le cause naturali (la biologia) delle malattie s’intrecciano profondamente con i risvolti sociali che le singole persone vivono e i significati (interpretazioni) che essi stessi attribuiscono a ciò che gli sta accadendo. In un unico termine: la loro biografia.

L’ascolto della storia della persona, le caratteristiche dell’ambiente in cui vive e i suoi ritmi, sono aspetti che devono confluire nell’anamnesi in modo che la diagnosi sia più corretta e il medico possa esercitare al meglio il suo compito. Grazie all’instaurarsi di una buona relazione, troverà più facilmente il modo di diventare narratore a sua volta e spiegare quelle che sono le scelte terapeutiche che ha pensato di adottare.

Per dare un inquadramento più chiaro, quello che abbiamo appena illustrato è il modello bio-psico-sociale di cui sono un convinto sostenitore. Grazie ad esso, il percorso di cura riesce a traghettare l’iniziale visione di malattia della persona che è normalmente contraddistinta da paura e senso d’incertezza in un nuovo orizzonte in cui essa è parte integrante della vita ed è tollerata senza problemi.

Inoltre, questa visione ridisegna il concetto di salute quale risultato della capacità di adattamento degli esseri umani che gli stessi riescono a raggiungere solo quando riescono a mettere in gioco la capacità di ascoltare in modo profondo e aprirsi al dialogo. Potrà sembrare un concetto astratto, ma si tratta di due istinti che appartengono all’uomo come esempio più alto di animale narrante (come lo definisce brillantemente Gottschall nel suo ultimo libro), con l’unica differenza che sono andati perdendosi, sopraffatti dalle conquiste della scienza e della tecnica.

In una relazione medico-paziente che diventa biunivoca, entrambi lavorano per recuperare la loro centralità, ma l’aspetto più importante è l’impegno del medico a mettere in gioco ogni giorno la sua sensibilità e la sua umanità. In questo modo, l’assistito potrà incontrare meno problemi nel comprendere caratteristiche ed effetti della patologia, potrà ritrovare l’armonia con il proprio corpo avendo conosciuto le motivazioni di ciò che gli accade, e vivrà gli eventuali condizionamenti con serenità.
Zuppiroli, a questo proposito, riferisce di una domanda che i medici dovrebbero fare costantemente a se stessi quando hanno di fronte un paziente a prescindere che l’abbiano appena conosciuto oppure che lo vedano per un controllo: la surprising question.

Essa è fondamentale nell’ottica della pianificazione congiunta delle cure con il paziente e la famiglia, ma si rivela altrettanto fondamentale nel permettere al medico di avere sempre la piena consapevolezza di come sta approcciando i bisogni di chi ha davanti.


Per far si che le dinamiche che abbiamo illustrato si diffondano, sempre più si sente molto parlare di medicina narrativa come strumento d'elezione. Non posso che trovarmi d’accordo su quanto essa possa essere d’aiuto, ma, come si chiede Zuppiroli, sono anch’io dell’idea che non ci sia veramente bisogno di inventare strumenti o, meglio, di accostare nuovi aggettivi al termine medicina. Si tratta solo di riscoprire qualcosa che siamo già in grado di fare poiché appartiene alla nostra natura più profonda di esseri umani.

Fare della medicina narrativa, infatti, vuole anche dire riflettere su ciò che funziona e ciò che non funziona nella sanità cercando di capire quelle che sono le prestazioni appropriate. Lo stesso Zuppiroli ha confessato che la sua ambizione personale è quella di dimostrare, utilizzando gli stessi approcci scientifici degli studi clinici osservazionali, quanto avere modi più umani di praticare la medicina abbia le loro buone ricadute.

Volendo arrivare a delle conclusioni di quanto ascoltato, risulta chiaro che il clinico deve impegnarsi per:
·  integrare i riscontri biologici (esami e prove strumentali) con ciò che il paziente riferisce innescando, così, un migliore percorso di ricerca della salute;
·  sviluppare la propria capacità di intuire il fil rouge emozionale con cui il paziente vive il percorso di diagnosi della malattia per supportarlo nella fase di comprensione delle terapie;
·  spiegare a paziente e parenti gli eventuali servizi di cui potrà usufruire in caso di bisogno e la necessità di un monitoraggio nel lungo termine in modo che la famiglia si senta coinvolta nel percorso.   

Se poi guardiamo più in grande alla strada che questi nuovi comportamenti aprirebbero, che si parli di complesse politiche sanitarie o delle scelte di singolo medico, non si può più ignorare l’influenza che i fattori ambientali o socio-economici hanno sulla nostra quotidianità.

Con il passare del tempo ci si renderà conto di come gli strumenti utili a individuare la migliore terapia per il suo problema clinico potranno essere rintracciati nel racconto di un paziente colmando le lacune degli studi clinici (massima espressione della medicina basata sulle prove o EBM) che, spesso, non coprono le fasce d’età più avanzate in cui la maggior parte delle patologie si manifesta. 

lunedì 9 febbraio 2015

Curare e Narrare atto secondo: alla scoperta del lato profondo della medicina


Ciao a tutti,

come promesso, dedico il post all’appuntamento del ciclo di conferenze “Curare e Narrare” del 26 gennaio scorso, forte della convinzione che va maturando ogni evento che seguo: ho l’occasione di conoscere relatori e punti di vista sempre molto utili a far crescere la mia personale conoscenza delle medical humanities e, ogni volta, la convinzione secondo cui, oggi, è importante mantenere vivo il lato narrativo della medicina si fa sempre più forte.  

Durante il primo evento, è stato illustrato come il delinearsi di scenari sereni oppure caotici durante la gestione dei percorsi assistenziali, l’importanza che i dottori conservino motivazioni professionali profonde e la presenza o meno di apertura al dialogo e all’ascolto da parte di tutti, influenzino notevolmente la qualità della presa in carico del paziente.

La riflessione condotta dal Prof. Spinsanti ha permesso di concludere come un ritorno alla dimensione originaria dell'arte medica e alla piena coscienza della propria autonomia decisionale da parte del clinico siano indirizzi importanti con cui l’atto medico può recuperare dignità ed efficacia.

A questo concetto perfettamente si agganciano le parole introduttive al secondo evento pronunciate dal Dott. Rivadossi secondo il quale il senso più profondo della medicina, al di là dei mezzi pratici e delle tecnologie di cui dispone, sia quello di alleviare il senso di ansia e confusione del paziente.

Nel momento in cui si ha un approccio umanitario alla malattia, si aiuta l’assistito a coltivare dentro di sé il desiderio e la capacità di resistere tollerando la sofferenza ed essendo consapevole di ciò che ha davanti.

Davanti ad un così nobile proposito, credo che a molti di voi (indipendentemente dal fatto che siate o no medici) sorga spontanea la domanda “come è possibile riuscire a raggiungere l’obiettivo appena descritto?”

Per capire meglio come affrontare queste situazioni è opportuno fare un passo indietro e cercare di capire quali siano le ragioni antropologiche e, quindi, di evoluzione dal punto di vista culturale che sono alla base della visione che i popoli hanno della malattia e di come deve essere affrontata.

Il titolo “La medicina come sistema culturale: saperi, pratiche, narrazioni” dà già un’idea di come esistano vari livelli di analisi dell'atto medico che l’antropologia medica, campo di studio in cui è specializzata la relatrice Lucia Portis, prende in considerazione per spiegare la stretta relazione tra i patrimoni culturali le tipologie di medicina che praticano.

Tutto ciò che ha a che fare con le cure, ha una relazione con il tessuto sociale perché è da lì che, in modo empirico, si è da sempre provato a interpretare ciò che si ha davanti dandogli un significato. Questo insieme di speculazioni e conoscenze confluisce in quello che è il concetto di sistema medico che ogni società sia del passato sia del presente ha.

Volendone dar una definizione più astratta e comprensibile, si tratta di tutte le azioni volte a prevenire, individuare e fronteggiare le malattie, ma siamo pur sempre davanti all’evoluzione che i saperi e le pratiche che hanno permesso all’uomo di affrontare e spiegare l’oscillazione del corpo tra due stati, quello di Salute e quello di Malattia, hanno avuto in ogni società.

Prendendo ad esempio il contesto in cui noi viviamo, il mondo occidentale, la visione della medicina che lo caratterizza è appunto quella occidentale, detta anche biomedicina. Essa ha profondi legami con gli scenari in cui il suo processo di sviluppo ha avuto luogo evidenziando, al contrario di tutti gli altri sistemi medici che etichetta, in modo elitario, “alternativi”, di essersi profondamente allontanata da una visione naturale e armonica di corpo, salute e malattia.

La prima conseguenza è che il primo elemento viene visto come un meccanismo complesso che necessita di numerose specialità per essere compreso, il secondo come un qualcosa di poco chiaro in quanto scontato, e il terzo alla stregua di un malfunzionamento da riparare a tutti i costi.

Il concetto di salute è da sempre poco definito in quanto l’uomo non è portato, purtroppo, a curarsene sino a quando il presentarsi di una malattia lo mette di fronte al suo venire meno. Quando cerca, comunque, di dargli una connotazione, tende a rifugiarsi nella visione più leggera e ottimistica di benessere e nel suo diminuire con l’avanzare dell’età.

La comparsa di una patologia, dall’altra parte, diventa teatro di varie rappresentazioni come dice lo studioso Byron Good sostenendo che la malattia viene dall’uomo vista come un “oggetto estetico”. Il suo arrivo, è un punto di rottura forte in quanto provoca una discontinuità nella nostra esistenza ed è per questo motivo che si fa sempre più fatica a immaginare uno scenario come quello della biomedicina secondo cui la mente umana è in grado di isolare ciò che accade al corpo senza avere la tendenza a darvi una lettura soggettiva.

In noi, appunto, il desiderio di conoscere la causa del proprio malessere è tanto forte e non possiamo fare meno di metterci alla ricerca di una diagnosi perché essa non è altro che il modo in cui un essere umano insegue la risposta che ci convince di più, qualcosa che appartiene totalmente alla sfera del soggettivo.

Ognuno di noi ha delle convinzioni frutto del suo percorso di crescita e formazione come individuo che lo portano a riporre fiducia in alcuni ambiti o forme di pensiero dove pensa di poter trovare una risposta terapeutica. Le tre principali sfaccettature del comportamento che il singolo ha nell’affrontare il proprio problema di salute viene definito dall’antropologia medica arena e può essere:
·  familiare quando rimango in un ambito circoscritto come il mio nucleo familiare e la cerchia di amici stretti. Spesso, quando si cerca di capire ciò che ci sta accadendo troviamo un rifugio nella pratica narrativa, la quale permette all’interpretazione personale di ciò che stiamo sperimentando di affiorare e rendere la presa in carico della patologia un fatto che non è più privato, bensì collettivo. Sempre secondo Byron Good, raccontare la malattia permette alla persona di ricollocarsi rispetto a ciò che sta vivendo per poterlo comprendere a fondo;
·  popolare nel caso in cui coinvolga ambiti più allargati del tessuto sociale in cui vivo come custodi di saperi antichi o esponenti del mondo spirituale. Nel primo caso, ci si affida a conoscenze che vengono trasmesse oralmente, la prossimità tra terapeuta e malato è alta e l’uso di rimedi s’intreccia con rituali e simboli che aiutano a rendere credibile il trattamento che si riceve. Nel secondo ambito, invece, la risposta alla sofferenza viene cercata nel soprannaturale, come spesso è accaduto nella storia, per cui la s’interpreta come la punizione per una colpa;
·  professionale nel momento in cui cerco un interlocutore all’interno della medicina ufficiale.

Un’altra dimostrazione delle difficoltà sempre maggiori che si incontrano nella dialettica tra curante e assistito emergono quando si valutano le frequenti problematiche nell’offrire un’assistenza medica di qualità a causa della contaminazione culturale che subisce la società moderna. La diversa provenienza geografica è sempre più spesso sinonimo di differenze nei modelli esplicativi tra pazienti e medici con tutte le conseguenze del caso nel trovare un punto d’incontro e comunicazione che permettono di chiarire il quadro clinico.

Questo scenario sarebbe molto più facile da affrontare nel momento in cui la biomedicina non avesse un atteggiamento di diffidenza sia verso le "arene" che compongono la società dove essa stessa si è sviluppata (mi riferisco a saperi antichi come la floriterapia), oppure nei confronti di medicine che provengono da culture molto distanti come quella cinese, ad esempio.

Le conseguenze pratiche sono almeno due (almeno in occidente, perché in oriente accade spesso il contrario):
·  l’esistenza di una sorta di pluralismo terapeutico sotterraneo per cui le persone finiscono per rivolgersi ad altre medicine senza che siano le stesse a essersi confrontate prima per rendersi complementari;
·  un’incapacità a vedere nella conoscenza di altri sistemi medici uno strumento importante per avere delle basi di dialogo e comprendere la cultura di una persona che ha pur sempre bisogno di cure mediche come chiunque di noi.

Ecco perché, a fronte di tutti gli aspetti di ordine storico e antropologico che sono stati affrontati, la sintesi estrema della giornata è che il percorso di diagnosi debba tornare a essere un processo narrativo e di accoglienza. 

Non a caso la stessa Dott. sa Portis ha rivolto alla platea la seguente domanda che ha incontrato un silenzio pieno di amara consapevolezza: “quanti di voi hanno mai chiesto a un paziente se avesse una sua idea di malattia e se avesse voglia di esprimerla?

Appuntamento al prossimo reportage!